mercoledì 8 settembre 2010

Legionarismo ascetico. Colloquio col capo delle “Guardie di Ferro”


Autore: Julius Evola

Bucarest, marzo.

Rapidamente la nostra auto lascia dietro di se quella curiosa cosa che è la Bucarest del centro: un insieme di piccoli grattacieli e di edifici modernissimi, prevalentemente di tipo “funzionale”, con mostre e magazzini fra la parigina e l’americana, l’unico elemento esotico essendo i frequenti cappelli di astrakan degli agenti e dei borghesi. Raggiungiamo la stazione del Nord, imbocchiamo una polverosa strada provinciale costeggiata da piccoli edifici del tipo della vecchia Vienna, che con rigorosa rettilineità raggiunge la campagna. Dopo una buona mezz’ora, l’automobile svolta improvvisamente a sinistra, prende una via campestre, si arresta di fronte ad un edificio quasi isolato fra i campi: è la cosiddetta “Casa Verde”, residenza del Capo delle “Guardie di Ferro” romene.

“L’abbiamo costruita con le nostre stesse mani” ci dicono con un certo orgoglio i legionari che ci accompagnano. Intellettuali e artigiani si sono associati per costruire la residenza del loro capo, quasi nel significato di un simbolo e di un rito. Lo stile della costruzione è romeno: ai due lati, essa si prolunga con una specie di portico, tanto da dar quasi l’impressione di un chiostro. Entriamo, raggiungiamo il primo piano. Ci viene incontro un giovane alto e slanciato, in vestito sportivo, con un volto aperto, il quale dà immediatamente una impressione di nobiltà, di forza e di lealtà. E’ appunto Cornelio Codreanu, capo della Guardia di Ferro. Il tipo è caratteristicamente ariano-romano: sembra una riapparizione dell’antico mondo ario-italico. Mentre i suoi occhi grigio-azzurri esprimono la durezza e la fredda volontà propria ai Capi, nell’insieme dell’espressione vi è simultaneamente una singolare nota di idealità, di interiorità, di forza, di umana comprensione. Anche il suo modo di conversare è caratteristico: prima di rispondere, egli sembra assorbirsi, allontanarsi, poi, ad un tratto, comincia a parlare, esprimendosi con precisione quasi geometrica, in frasi bene articolate ed organiche.

“Dopo tutta una falange di giornalisti, di ogni nazione e colore, che altro non sapevano rivolgermi se non domande della politica più legata al momento, è la prima volta, e con soddisfazione” dice Codreanu “che viene da me qualcuno che si interessa, prima di tutto, all’anima, al nucleo spirituale del mio movimento. Per quei giornalisti avevo trovato una formula per soddisfarli e per dire poco più che nulla, cioè: nazionalismo costruttivo.

“L’uomo si compone di un organismo, cioè di una forma organizzata, poi di forze vitali, poi di un’anima. Lo stesso può dirsi per un popolo. E la costruzione nazionale di uno Stato, benché riprenda naturalmente tutti e tre gli elementi, pure, per ragioni di varia qualificazione e varia eredità, può soprattutto prendere le mosse da uno particolare di essi.

“Secondo me, nel movimento fascista predomina l’elemento Stato, che equivale a quello della forma organizzata. Qui parla la potenza formatrice dell’antica Roma, maestra del diritto e dell’organizzazione politica, della quale d’Italiano è il più puro erede. Nel nazionalsocialismo viene invece in risalto quanto si connette alle forze vitali; la razza, l’istinto di razza, l’elemento etnico-nazionale. Nel movimento legionario romeno l’accento cade soprattutto su quel che, in un organismo, corrisponde all’elemento anima: sull’aspetto spirituale e religioso.

“Da ciò sorge la caratteristica dei vari movimenti nazionali, per quanto essi, alla fine, comprendano tutti e tre questi elementi, e non ne trascurino nessuno. Il carattere specifico del nostro movimento ci viene da una remota eredità. Già Erodoto chiamava i nostri progenitori: “I Daci immortali”. I nostri antenati getotraci avevano per fede, già prima del cristianesimo, l’immortalità e l’indistruttibilità dell’anima, ciò che prova il loro orientamento verso la spiritualità. La colonizzazione romana ha aggiunto a questo elemento lo spirito romano di organizzazione e di forma. Tutti i secoli successivi hanno fatto miserabile e disgregato il nostro popolo: ma come anche in un cavallo malato e frustro si può riconoscere la nobiltà della sua razza, così anche in ciò che ieri e oggi è il popolo romeno si possono riconoscere gli elementi latenti di questa doppia eredità.

“Ed è questa eredità che il movimento legionario vuole destare” continua Codreanu. “Esso parte dallo spirito: vuole creare un uomo spiritualmente nuovo. Realizzato come “movimento” questo compito, ci attende il risveglio della seconda eredità, cioè della forza romana politicamente formatrice. Così lo spirito e la religione sono per noi il punto di partenza, il “nazionalismo costruttivo” è il punto di arrivo e quasi una conseguenza. A congiungere l’un punto con l’altro sta l’etica ascetica e simultaneamente eroica della “Guardia di Ferro”".

Chiediamo a Codreanu in che rapporto stia la spiritualità del suo movimento con la religione cristiano-ortodossa. La risposta è: “In genere, noi tendiamo a vivificare nella forma di una coscienza nazionale e di una esperienza vissuta ciò che, in questa religione, molto spesso si è mummificato ed è diventato il tradizionalismo di un clero sonnolento. Noi poi ci troviamo in una condizione felice per il fatto che alla nostra religione, articolata nazionalmente, è estraneo il dualismo tra fede e politica ed essa può fornirci elementi etici e spirituali senza imporsi come una entità comunque politica. Dalla nostra religione il movimento delle Guardie di Ferro riprende poi un’idea fondamentale: quella della ecumenicità. Questo è il superamento positivo di ogni internazionalismo e di ogni universalismo astratto e razionalistico. L’idea ecumenica è quella di una societas come unità di vita, come organismo vivo, come un vivere insieme non solo col nostro popolo, ma anche con i nostri morti e con Dio. L’attuazione di una simile idea in forma di esperienza effettiva è il centro del nostro movimento; politica, partito, cultura, ecc. per noi non sono che conseguenze e derivazioni. Noi dobbiamo rivivificare questa realtà centrale, e rinnovare per tal via l’uomo romeno, per poi procedere e costruire anche la nazione e lo Stato. Un punto particolare è che, per noi, la presenza dei morti nella nazione ecumenica non è astratta, ma reale: dei nostri morti e soprattutto dei nostri eroi. Noi non possiamo separarci da essi; essi, come forze divenute libere dalla condizione umana, compenetrano e sostengono la nostra vita più alta. I legionari si radunano periodicamente in piccoli gruppi, chiamati “nidi” [cuib, n.d.c.]. Queste adunanze seguono riti speciali. Quello con cui si apre ogni riunione è l’appello a tutti i nostri compagni caduti, al quale i convenuti rispondono con “Presente”. Ma ciò per noi non è una pura cerimonia e una allegoria, bensì una evocazione reale.

“Noi distinguiamo l’individuo, la nazione e la spiritualità trascendente” continua Codreanu “e nella dedizione eroica consideriamo ciò che porta dall’uno all’altro di tali elementi, fino ad una superiore unità. Noi neghiamo in ogni sua forma il principio dell’utilità bruta e materialistica: non solo sul piano del singolo, ma anche su quello della nazione. Di là dalla nazione noi riconosciamo dei principi eterni ed immutabili, in nome dei quali si deve esser pronti a combattere, a morire e a tutto subordinare almeno con la stessa decisione in nome del nostro diritto di vivere e di difendere la nostra vita. La verità e l’onore sono, per esempio, dei principi metafisici, che noi poniamo più in alto della nostra stessa nazione”.

Noi abbiamo saputo che il carattere ascetico del movimento delle Guardie di Ferro non è generico, ma anche concreto e, per dir così, praticante. Ad esempio, vige la regola del digiuno: tre giorni alla settimana circa 800.000 uomini praticano il cosiddetto “digiuno nero”, cioè l’astinenza da ogni specie di cibo, da bevande, da tabacco. Del pari, la preghiera ha nel movimento una parte importante. In più, per il corpo scelto di assalto che porta il nome dei due capi legionari caduti in Spagna, Mosa e Marin, vige la regola del celibato. Chiediamo al Codreanu che ci indichi il senso preciso di tutto ciò. Egli sembra concentrarsi un momento, poi risponde: “Vi sono due aspetti, per chiarire i quali bisogna tener presente il dualismo dell’essere umano, composto di un elemento materiale naturalistico e di un elemento spirituale. Quando il primo domina il secondo, è l’”inferno”. Ogni equilibrio fra i due è cosa precaria e contingente. Solo il dominio assoluto dello spirito sul corpo è la condizione normale e il presupposto di ogni vera forza, di ogni vero eroismo. Il digiuno viene da noi praticato perché propizia una tale condizione, allenta i vincoli corporei, propizia l’autoliberarsi e l’autoaffermarsi della pura volontà. E quando a ciò si aggiunge la preghiera, noi chiediamo che forze dall’alto si uniscano alle nostre e ci sostengano invisibilmente. Il che conduce al secondo aspetto: è una superstizione pensare che in ogni combattimento solo le forze materiali e semplicemente umane siano decisive; in esso entrano invece in giuoco anche delle forze invisibili, spirituali, almeno altrettanto efficaci quanto le prime. Noi siamo coscienti della positività e dell’importanza di tali forze. Per questo diamo al movimento legionario un preciso carattere ascetico. Anche negli antichi ordini cavallereschi vigeva il principio della castità. Rilevo tuttavia che esso da noi è ristretto al Corpo di Assalto, anche sulla base di una giustificazione pratica, cioè che chi deve votarsi interamente alla lotta e non deve temere la morte è bene non abbia gli impedimenti della famiglia. Del resto, in quel corpo si resta solo fino ai 30 anni compiuti. Ma, in ogni caso, resta sempre una apposizione di principio: vi sono da un lato coloro che conoscono solo la “vita” e che quindi non cercano che la prosperità, la ricchezza, il benessere, l’opulenza; dall’altro lato vi sono coloro che aspirano a qualcosa più che la vita, alla gloria e alla vittoria in una lotta interiore quanto esteriore. Le Guardie di Ferro appartengono a questa seconda schiera. E il loro ascetismo guerriero si completa con una ultima norma: col voto di povertà a cui è tenuta l’élite dei capi del movimento, con i precetti di rinuncia al lusso, ai vuoti divertimenti, agli svaghi cosiddetti mondani, insomma con l’invito ad un vero cambiamento di vita che noi facciamo ad ogni legionario”
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giovedì 12 agosto 2010

L'ANARCA di ERNST JUNGER

Ernst Jünger: L’Anarca - di AVGVSTOPDFStampaE-mail
Scritto da AVGVSTO

Nel pensiero di Ernst Jünger, a partire dagli anni ’60, la concezione del Ribellesi evolve man mano, confluendo in quella dell’Anarca, ovvero da una concezione etica di resistenza attiva e anti-sociale, si passa a una concezione etica più ampia di resistenza passiva e a-sociale. Infatti, l’epoca storica si avviava ad essere destinata non più alla mobilitazione totale, ma alla ripetizione di periodi cesaristici e diadochici ormai privi di storia, già prefigurati nel cesarismo spengleriano, e del tutto calzanti ai nostri tempi. In quest’ottica, si rovescia perciò anche il modello proposto: da un uomo che è bandito dalla società, a un uomo che ha bandito la società da se stesso.





Al di là dell’evoluzione di pensiero determinata dal cambiamento della situazione storica, con l’avanzata dilagante del nichilismo (crisi nucleari, conflitti di decolonizzazione, Contestazione) non bisogna neanche trascurare l’ampliamento delle conoscenze di Jünger, dovuta per esempio allo studio delle religioni e delletradizioni orientali proprio al periodo di collaborazione con Mircea Eliadealla rivista «Antaios», da loro due fondata, il che suggerisce e spiega gli spunti di connessione dell’Anarca con certe dottrine orientali, come ilTao.





L’opera fondamentale sull’Anarca, in cui questa figura è rappresentata e teorizzata, è il romanzo criptostorico Eumeswil (1972), il libro conclusivo di una trilogia narrativo-simbolica che si snoda da Auf den Marmorklippen ad Heliopolis, descrivendo le tre diverse fasi dell’affermazione della modernità, ovvero dal rovesciamento dell’ordine tradizionale alle lotte interne per il potere, fino allo stabilirsi di unnuovo ordine totalitario tirannico-demagogico.





Nella città-stato postmoderna di Eumeswil, contesa tra l’alternarsi di oligarchie tribunizie e dittature personali, vive e si racconta Martin Venator, assistente e studioso di storia all’università e al contempo steward privato del Condor, il tiranno che domina la città. Questa vicinanza al potere è vissuta in modo esterno come un’occasione preziosa di apprenderne i meccanismi, in funzione della sua attività di storico, e tuttavia comporta tutta una serie di pericoli che il protagonista prende in considerazione. Dalla sua figura e dai suoi pensieri, emerge quindi il ritratto dell’Anarca jüngeriano. L’intreccio è in realtà limitato a un lungo monologo del protagonista che descrive estesamente la situazione e i suoi pensieri, fino a giungere all’improvviso finale.





Jünger constata come in ogni uomo vi sia al fondo un principio anarchico e libertario, in modo simile all’Unico di Stirner, da cui l’Anarca si distacca però in quanto cosciente della sua libertà. Egli è totalmente indipendente, sia sul piano politico, sia su quello intellettuale e spirituale. Il suo approccio è quello spensierato e ludico del fanciullo nietzscheano, per cui il dovere è affrontato come una vacanza, e il riposo come una veglia, rimanendo continuamente presente a se stesso. Così, egli potrà sempre mantenersi libero dagli impegni della società. Questo non significa però ch’egli non può parteciparvi, anche emotivamente, ma semplicemente che manterrà sempre la sua libertà di giudizio e d’azione e una riserva di fondo, che gli consenta di declinare il proprio impegno, qualora questo non gli sia più accettabile moralmente.





La morale dell’Anarca non è un codice rigido, né un legame esterno, ma è strettamente autonoma e non codificata. L’unica autorità ch’egli riconosce è se stesso, oltre al diritto di ciascun altro individuo a porsi come Anarca. Per mantenersi puro rispetto a influenze esteriori, è sempre opportuno dunque un certo distacco, e una visione della realtà obiettiva, come quella di uno storico. Lo studio della Storia diventa istruttiva perché permette di storicizzare ogni attualità e considerarla in maniera neutra, così come rivela le regole e i meccanismi della politica e delle leggi.





Infatti, come sottolinea in più passi Jünger, l’Anarca è ben differente dall’anarchico: quest’ultimo è impegnato politicamente e socialmente, e pur disprezzando le norme della società, egli riconosce l’autorità, dal momento che vi lotta contro; di fatto, l’anarchico è bloccato dai pregiudizi e dai valori cui aderisce. Ben diversamente, l’Anarca mantiene una serena adesione e una costante vigilanza, tali da poter partecipare liberamente alla società, ma senza legami o costrizioni di sorta.





Il suo rapporto con l’autorità non è conflittuale, dal momento che egli stesso esercita autorità su se stesso. La sua libertà interiore è la stessa di un Cesare sopra i propri domini. Sa di avere ogni diritto, compreso quello di uccidere se stesso. Grazie all’analisi storica ha imparato come governare se stesso e come sono governati gli uomini. Così, egli accetta la società, ben sapendo che la sua libertà non dipende dalle libertà materiali.





In conclusione, si può osservare che l’Anarca, rispetto al Ribelle, non costituisce un cedimento o una ritirata. È sbagliata infatti la contrapposizione tra uno Jünger giovane e ribelle e uno Jünger invecchiato e imborghesito proposta da Evola, il cui Cavalcare la Tigre molto ha in comune con lo Jünger postbellico. Al contrario, il passaggio al bosco è solo una delle possibilità dell’Anarca, il quale prende le mosse dal Ribelle, ma – con una maggior coscienza del totalitarismo odierno e un declinare dell’ottimismoda parte dell’autore – questo nuovo tipo umano sviluppa queste problematiche a un livello più profondo e più elevato, dal momento che ha raggiunto un’ancor più piena libertà interiore.

domenica 25 luglio 2010

I LAUREATI

TRATTO DA www.azionetradizionale.com

Nulla da eccepire a questo articolo che perfettamente analizza l’amara realta’ dei neolaureati occidentali in generale e italiani in particolare.

Chi critica “il sistema”, nella stragrande maggioranza dei casi, continua ad affermare di volere un sistema piu’ giusto. Il problema nasce quando, nei fatti , si va a trasformare in azioni materiali la parola “giusto”. Il dramma e’ che, essenzialmente, si tende a pensare che “giusto” sia qualcosa di estremamente rispettoso delle sensibilita’ e delle umanita’ in gioco, mentre al contrario la giustizia e’ una entita’ astratta tra le piu’ disumane.

Per anni, nel mondo occidentale, moltissimi hanno creduto di andare verso un mondo senza lavoro. Voi direte: mai creduto in simili scemenze, io! Invece no: essenzialmente questa cultura si e’ diffusa a tal punto da trovare quasi naturale, per dirne una, che quasi tutti i giovani vadano all’universita’.

Ora, la domanda e’: in che modo una societa’ basata sul lavoro puo’ sostenere il fatto che tutti siano, almeno in teoria, dotati di quel che serve per appartenere alla classe dirigente? La risposta e’ molto semplice: nella cultura degli anni ‘90, gli europei e gli occidentali in genere sarebbero stati la classe dirigente del mondo.

In questa visione e’ perfettamente lecito pensare che se il mondo ha qualcosa come 7 miliardi di abitanti, e l’occidente ammonta (ammontava quando era in voga questa ideologia) in tutto a qualcosa come 800 milioni di persone, era ragionevole che ogni occidentale avrebbe “gestito” (1) una decina di non-occidentali.Di conseguenza, la retorica occidentale di tutti gli anni ‘90 era che “la produzione si sarebbe spostata, in occidente si sarebbero fatti i servizi e si sarebbe gestita la complessita’”. Qualsiasi cosa significhi “gestire la complessita’ ” (2) , qualcuno si e’ chiesto, all’epoca, se fosse “giusto”?

Appariva sicuramente “giusto” a noi. Il fatto che i nostri figli si sarebbero liberati (nel delirio ideologico dell’economia senza lavoro) dei lavori “che ci vuole la fatica”(3) , che le loro mani non avrebbero avuto calli, che avrebbero vessato altri anziche’ subire vessazioni, che avrebbero alternato un lavoro interessante ad una vita sociale brillante, ci sembrava “giusto”.

Eppure, era estremamente disumano per chi subiva tale trasformazione dall’altra parte. Ora, ovviamente questa ideologia e’ fallita, e se osserviamo “i giovani che non trovano lavoro” ci troviamo essenzialmente laureati. Mi spiace, ma questo e’ “giusto”.E’ successo semplicemente, ed e’ “giusto”, che la necessita’ di lavoro per ottenere risultati sia rimasta una necessita’ fisica del sistema economico. E il risultato e’ stato che tutti quelli che hanno sacrificato i propri unici 20 anni di scuola allo scopo di “gestire la complessita’” si siano trovati senza lavoro. O meglio: senza la figata che loro si erano illusi fosse il loro lavoro.Tutti questi giovani virgulti si erano illusi di entrare in un mondo fatto di scrivanie, after hours, vita sociale, comando di altri , hanno scoperto che nei luoghi ove “si sarebbe spostata la produzione” si e’ spostata anche la ricchezza, e di conseguenza giovani virgulti cinesi stanno facendo la vita che loro pensavano fosse loro diritto. Mi sembrano quelle onde che si infrangono sugli scogli, senza mai potersi distendere su una vera spiaggia.Ho a che fare, oggi, con questa “ondata di perduti”, nel senso che li vedo arrivare in azienda, nel senso che li vedo in giro a lamentare, a discutere di lavoro.

E’ come se avessimo cresciuto una generazione dentro una botte, mostrando loro un mondo inesistente. Gli abbiamo fatto leggere ogni giorno “Alice nel paese delle meraviglie”, sino a convincerli che appena adulti avrebbero trovato lo stregatto, il cappellaio matto, la regina di cuori. Un’economia senza lavoro, senza subordinazione, senza fatica, fatta di diritti garantiti e crescenti , di vita sociale brillante e gratuita, di bei vestiti e persone interessanti. Sono usciti nel mondo vero, e hanno scoperto la realta’: la ricchezza che serve per avere tutto questo non solo e’ riservata a pochi, ma segue , spostandosi, la produzione. No produzione, no ricchezza.

Questa e’ l’onda dei perduti.

Hanno avuto un’istruzione patetica. Non saprei come definire il giovane neolaureato. E’ come se sapessero bene cosa sia un gatto, cosa sia un cane, ma non riuscissero a dirti se sia piu’ plausibile tra “il gatto insegue il cane” o “il cane insegue il gatto”. E’ come se conoscessero le cose, ma non le relazioni tra le cose, la struttura che lega le cose. Ogni anno si celebra uno stupido rituale, quello degli esami di massa. A questi esami, gli studenti vanno preparati. A volte. Molti non fanno altro che compilare tesine sfruttando internet ed i motori di ricerca. Altri trovano i metodi piu’ improbabili per copiare.Dopo aver passato degli esami a furia di bigliettini, trucchi, raccomandazioni, che cosa fanno? Non trovano lavoro.

Ora, non sto dicendo che tutti quelli che non trovano lavoro siano disoccupati perche’ hanno truccato gli esami e studiato poco. Ma prendiamo quelli che lo hanno fatto. Qualcuno di loro secondo voi dira’ “merito la disoccupazione perche’ non ho studiato quanto avrei dovuto?”.

La risposta e’ “no”. Essi sanno cosa sia studiare poco, sanno cosa sia la disoccupazione, ma non percepiscono che possa esservi una relazione tra le due cose. Essi sono completamente destrutturati, con il risultato che sanno A, sanno B, ma non percepiscono la relazione tra A e B.

Ora, il fatto che moltissimi di questi giovani sia disoccupato non lo trovo “ingiusto”. Non capisco per quale ragione chi non puo’ dare nulla dovrebbe avere qualcosa in cambio.

Qui e’ il punto: l’economia occidentale si sta liberando, lentamente, dell’idea che possa esistere la ricchezza senza lavoro. Ce ne stiamo liberando lentamente, non perche’ qualcuno abbia criticato questa cosa: semplicemente perche’ le leggi della fisica (4) ci stanno riportando alla realta’.

Il problema e’ che questo sogno e’ durato quasi 15 anni, e ha formato un’intera generazione di giovani. L’onda dei perduti.

Voi direte: ma non e’ “giusto” che questi giovani si trovino in questa situazione. Se per “giusto” intendete il fatto che non si tratti di una punizione per qualcosa che hanno fatto, sono d’accordo. Non hanno fatto nulla.

Ma la giustizia non e’ semplicemente un meccanismo punitivo. E’ un meccanismo fatto di inevitabili conseguenze.

Nell’ultimo libro che ho scritto, una delle religioni che ho inventato ha un vangelo che dice “Le conseguenze de le tue azioni sono inevitabili”. Questo e’ il concetto.

Voi direte: ma un sacco di gente ha fatto i propri porci comodi e non ha pagato. Questo fa ancora parte del concetto: le loro azioni li hanno messi al riparo. L’umanita’ fa coincidere la giustizia con la morale, e la morale con l’autoassoluzione. Cosi’ fatichiamo a capire una giustizia che ci condanni: noi avevamo appoggiato la giustizia sulla morale, e la morale (scopo ultimo di ogni morale) ci assolveva.

Nel mondo delle religioni monoteiste, tutto ci viene presentato in termini di “giudizio finale”, il che e’ ancora un momento di giustizia (si presume perfetta, ovvero morale, ovvero gli altri verranno condannati e noi assolti) nel quale si sceglie (Dio, il Karma, etc) se condannare o meno.

Tutto questo va bene se proprio ci volete credere, ma queste religioni spostano la cosa in un momento che e’ fuori dalla realta’, o come dice il vangelo “il mio regno non e’ di questo mondo”, ovvero non potete aspettarvi questo su questo pianeta.

Su questo pianeta, vale una sola legge: “le conseguenze delle tue azioni sono inevitabili”. Ovvero, nel medio e lungo termine, tutto il bilancio della vostra esistenza dipende , quasi per intero, dal vostro operato, ovvero dalle scelte passate.

Alcuni dicono che non esistono “uomini che si fanno da se’”. Palle. Nel lungo periodo, TUTTI “ci facciamo da noi”. Il destino cinico e baro puo’, ovviamente, causare dei colpi di fortuna e sfortuna. E questo nel breve periodo e’ vero. Ma non nel lungo periodo.

Indubbiamente, se nascete in una famiglia povera il destino vi ha tirato una bella sega. Ma se a 40 anni siete ancora poveri, esiste una GROSSA componente di responsabilita’.

Sia chiaro, non sto negando che esista la fortuna. Sto solo dicendo che nel lungo termine la fortuna non e’ prevalente. Tantissimi hanno dilapidato ricchezze enormi, pur nascendo da famiglie ricchissime. Altri poveri sono diventati ricchi. Non c’e', in definitiva, una prevalenza della fortuna nel lungo termine.

E qui torniamo all’ onda dei perduti. Milioni di persone hanno fatto, negli ultimi 15 anni, un errore catastrofico. Quello di credere in un mondo senza lavoro, in un’economia fatta di “gestire” e di “socializzare”. Milioni di giovani hanno fatto un errore catastrofico, quello di salire sul carro di una scuola che non poteva portarli da nessuna parte non perche’ fosse inadeguata, ma perche’ li preparava per un mondo che non sarebbe mai esistito, il famoso occidente che avrebbe fornito al mondo di lavoratori la propria classe dirigente.

La scuola ha lavorato benissimo: ha preparato esattamente la torma di imbecillotti coperti di monili pederastici , incapaci di prendere una decisione, completamente destrutturati , del tutto improduttivi, che sembrava servire al mondo che doveva venire.

Questa gente ha assorbito perfettamente il linguaggio del nuovo che avanza, che tanto nuovo non doveva essere se gia’ Italo Calvino ha una perfetta definizione di questo linguaggio, definito “antilingua”, nel quale ogni termine non ha MAI un significato esatto, ma un significato simile, collaterale, sottinteso, come diceva Citati.

Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. “Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi svuotati della loro forza”

Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”.

Non e’ perfetta, questa “antilingua”, per una generazioni di giovani che doveva essere la classe dirigente del mondo, “gestire la complessita’” , e quindi avere una funzione piu’ alta di ogni cosa, compresi loro stessi?

L’antilingua non e’ solo un linguaggio, e’ un modello di pensiero. E’ un modello di pensiero nel quale “cane” e’ qualcosa circa il cane ma non esattamente il cane, gatto e’ qualcosa circa il gatto ma non esattamente il gatto, “insegue” e’ un verbo che indica qualcosa di simile a venire dopo, e a quel punto non e’ mai troppo chiaro se sia piu’ plausibile che il cane insegua il gatto o il gatto insegua il cane: IN UN CERTO SENSO, non sono possibili entrambe?

L’onda dei perduti e’ un’onda del “certo senso”. E’ la persona che esamina una configurazione e non ci vede nulla di strano, perche’ “in un certo senso” i due host comunicano. Certo, si scambiano degli RST , ma non e’ anche il chiudere la comunicazione un modo di comunicare che non vuoi comunicare? Detto cosi’ tutto ha senso, detto cosi’ NULLA HA VALORE.

Non posso dire che la scuola abbia fallito. Al contrario, ha funzionato alla perfezione: ha prodotto esattamente il farlocco che si pensava avrebbe avuto successo nel mondo del futuro. Peccato che la previsione fosse del tutto sbagliata, ed il mondo del futuro non e’ stato quello previsto.

Si pensava che il mondo avrebbe richiesto di gente che, dovendo parlare con culture diverse, avrebbe dovuto abbandonare ogni struttura locale. E cosi’ e’ stato: questi giovani escono da scuola completamente destrutturati: una frase come “costringere le donne a portare il burqa e’ una forma di rispetto” non fa una grinza, per loro. (5)

Si pensava che questi giovani avrebbero dovuto sviluppare la creativita’ piu’ della tecnica, e quindi li si e’ trasformati in persone che rifiutano qualsiasi disciplina di tipo tecnico. Hanno studiato il Karate sui libri, pensando che sul tatami sarebbe stata una questione di creativita’. Invece e’ una questione di tecnica, e cadono come mosche.

Che cosa sto dicendo con tutto questo lungo discorso? Che non prevedo, nei prossimi 10-15 anni, alcuna diminuzione del tasso di disoccupazione.

I nostri disoccupati sono , quando giovani, stati preparati ad un mondo che non e’ mai venuto. Saprebbero fare cose incredibili con il cappellaio matto, sanno comunicare benissimo con lo stregatto, e la regina di cuori non ha segreti per loro. Peccato che quel mondo non sia reale.

Occorreranno dieci, forse venti anni perche’ queste persone possano, a pezzi e bocconi, acquisire un minimo di esperienza capace di strutturarli decentemente. Poi, saranno gia’ vecchi per il mondo del lavoro, e ci entreranno in posizioni miserabili.

Tempo fa repubblica invito’ la gente a parlare della sua disoccupazione. Gran parte dei messaggi, nessuno ci fece caso, erano di giovani laureati. Nessuno, pero’, si e’ ancora messo a calcolare la correlazione tra disoccupazione giovanile e laurea. Spero che qualcuno un giorno lo faccia.

In ogni caso, e’ ora di dire l’amara verita’: il 30% dei giovani non ha lavoro perche’ la ristrutturazione in corso nell’economia sta andando nella direzione opposta a quella che si prevedeva quando si e’ creato un sistema educativo che produce fantasiosi farlocchi.

Queste persone escono dall’universita’, diciamo, a 25 anni. Sono perfettamente addestrati ed educati ad un mondo che non esiste , che e’ esistito in alcune nazioni per qualche anno, e che non esistera’ mai piu’. Hanno bisogno di 10-15 anni per scendere di nuovo coi piedi per terra.

Ma tra 10-15 anni, avranno dai 35 ai 40 anni, e saranno ancora al primo gradino. Avranno capito la relazione tra lavoro e risultati che qualsiasi idraulico rumeno di 18 anni conosce benissimo. Con soli 15-20 anni di ritardo.

Questa generazione di Junior di mezza eta’ vorra’ una paga adeguata all’eta’, ma avra’ una paga adeguata alle capacita’ di uno che arriva a capire qualcosa con 20 anni di ritardo. Perche’ questo sono: ritardati esistenziali.

Qui siamo al punto di cui sopra: le conseguenze delle tue azioni sono inevitabili.

Abbiamo voluto credere che tutti sarebbero diventati dottori, manager, direttori, professionisti., creativi, artisti In alcune nazioni sembrava possibile, per via di una speculazione finanziaria che drogava l’economia. Abbiamo educato un’intera generazione per questo. Poi, il mondo ha preso una piega diversa.

E oggi abbiamo un’onda dei perduti, quasi 15 anni di persone che hanno studiato e si sono preparate per un mondo che non e’ mai arrivato. La mia personale opinione e’ che se l’economia continua a restrutturarsi secondo quanto hanno deciso al G20 e all’ FSB, quelli di loro che hanno un lavoro finiranno col perderlo.

O, come dice un mio collega “minchia, ma alla fine siamo rimasti solo noi tecnici, nella stanza”.

Quanti saranno? Spannometricamente, abbiamo 15-20 anni accademici cresciuti cosi’. A 400-500 mila giovani ad anno, calcolando un 30% di persone di capacita’ superiori alla media, possiamo calcolare circa sei milioni di giovani che resteranno disoccupati. (se cambiamo la scuola subito, si intende, altrimenti ne produrremo altri) entro 4-5 anni: quelli prodotti nei prossimi 4-5 piu’ quelli prodotti sinora.

E la cosa piu’ amara da digerire, per loro, e che questo e’ “giusto”, ovvero e’ l’inevitabile conseguenza di errori passati.

sabato 24 luglio 2010

Ernst Jünger e la rivoluzione nazionale

Tratto da Linea del 10 ottobre 2008.

Il 16 agosto 1922 è una data importante nella storia del nazionalismo tedesco. Quel giorno vide la prima uscita in forze della SA: l’organizzazione paramilitare del Partito nazionalsocialista, ancora ai suoi primi passi, fece convergere ottocento uomini sulla Königsplatz di Monaco, dove già si trovavano riuniti ben trentamila membri del Bund Oberland di Franz von Epp, del Bund Bayern und Reich e della Reichsflagge di Ernst Roehm. Erano le maggiori leghe del radicalismo nazionale presenti in Baviera, composte per la quasi totalità da ex-combattenti e da ex-appartenenti ai Freikorps. Si trattava di protestare contro la “legge per la protezione della Repubblica”, che minacciava di procedere severamente contro l’estremismo. Non fu che un antefatto. Quando, in occasione del Putsch dell’8 novembre 1923, la Destra rivoluzionaria passò di nuovo all’azione, a trovarsi fianco a fianco furono ancora nazionalsocialisti e nazionalisti. Negli uni e negli altri, la presenza di ex-combattenti era molto alta. Lo storico Anthony Read ha scritto recentemente che, nelle concitate ore delPutsch, circa mille cadetti della scuola di fanteria di Monaco abbandonarono la loro caserma e si misero sotto il comando di Gerhard Rossbach, uno dei capi più prestigiosi dei Freikorps, con cui marciarono «con le bandiere della svastica e con l’accompagnamento di una banda per raggiungere Hitler e Ludendorff».

Occorre ricordare, inoltre, che quando, nel luglio 1921, Hitler chiese e ottenne poteri dittatoriali all’interno della NSDAP, ebbe dalla sua parte Hermann Ehrhardt, leader del Wiking-Bund e altro capo prestigioso proveniente dai Freikorps; e che il primo nucleo della SA venne messo sotto il comando di Hans Ulrich Klintzsch, a sua volta veterano della temutissima Brigata Ehrhardt. Infine, è appena il caso di ricordare che Franz Seldte, comandante dello Stahlhelm, la potente organizzazione di ex-combattenti, fu a lungo un fiancheggiatore della politica hitleriana, artefice nel 1932 della fusione tra nazionalisti e nazionalsocialisti, finendo Ministro del Lavoro nel governo di “concentrazione nazionale” del 30 gennaio 1933, e rimanendo in carica fino al 1945.

Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933. Vol. 1: 1919-1925Tutto questo per dire che le posizioni politiche de combattentismo e del Nazionalsocialismo erano di fatto indistinguibili. Del resto, fu sempre un punto centrale della propaganda hitleriana l’esaltazione del Frontsoldat, che avrebbe dovuto trasferire la sua lotta sul terreno della politica interna, dando vita a quella nuova figura che era il soldato politico. Queste precisazioni – ovvie – sono necessarie nel momento in cui, sia in Italia che in Germania, si tenta da più parti di operare una scissione tra il nazionalismo e il Nazionalsocialismo. Si pensa, così facendo, di poter mettere all’asciutto segmenti di storia patria e di ritessere alla meglio alcune verginità altrimenti irrimediabilmente deflorate. Alludiamo, in particolare, ai casi della cosiddetta “resistenza” anti-nazista legata al 20 luglio 1944 (uno colpo reazionario-militarista divenuto mito fondante della democratica Bundesrepublik…) e al restauro cui è regolarmente sottoposta la figura di Ernst Jünger.

Tutta l’ideologia e la visione del mondo dello Jünger diciamo così “giovane”, membro autorevole della cerchia nazionalrivoluzionaria, erano innestate sul nazionalismo imperialista. Le fonti a cui si abbeverava erano personaggi come ad esempio il neopagano Friedrich Hielscher (futuro collaboratore della SS-Ahnenerbe) e Oswald Spengler. I valori attorno a cui ruotava l’immaginario politico jüngeriano non erano cosette leggere: si invocava una redenzione della patria tedesca, l’apparizione di un capo assoluto e l’affermarsi di una dittatura radicale, mobilitatoria, fedele al tradizionalismo gerarchico antico-tedesco e garante di una mistica guerriera. La figura centrale, come per Hitler, era il Frontsoldat, eroicizzato a “tipo” emblematico di combattente freddo e audace e alla fine, nel 1932, sublimato nell’Arbeiter. Jünger proponeva il passaggio a forme di lotta contro la democrazia senz’altro risolute, usufruendo del medesimo nichilismo moderno, senza indietreggiare persino dinanzi a misure addirittura “brutali”. In più, predicava l’esclusione dell’ebraismo dal contesto nazionale, in quanto quintessenza del borghesismo moderno, e operava una vera e propria mitizzazione del sangue comunitario. Come si può leggere, ad esempio, nell’articolo apparso sul giornale combattentistico Standarte del 29 aprile 1926: «l’intrico sotterraneo delle radici… questa trama che è realmente vincolante e rispetto alla quale il singolo non significa nulla, perché è da essa che è generato, è il sangue che ce ne dà il presagio, grazie al quale avvertiamo il sentimento lieto di una profonda appartenenza… Un popolo senza legami di sangue è una mera massa…», e così via per pagine. Jünger, insomma, non diceva proprio nulla di diverso da quanto scrivevano in quegli anni un Günther o un Darré. Eppure, ancora una volta, siamo costretti a registrare un genere di lettura di prose siffatte che ci ricorda molto da vicino la simmetrica operazione che costantemente viene svolta a proposito del razzismo di Evola. Razzisti, sì, forse, anzi no…insomma, erano soltanto dei teorici…spiritualisti…la solita cantilena.

Ernst Jünger, Heimo Schwilk, Leben und Werk in Bildern und TextenApriamo il recente e denso libro di Andrea Benedetti, Rivoluzione conservatrice e fascino ambiguo della tecnica. Ernst Jünger nella Germania weimariana: 1920-1932 (Edizioni Pendragon) e vediamo che, ad esempio, il razzismo di Jünger, impossibile da negare, viene disinnescato rubricandolo sotto la voce di “razzismo culturale”… Leggiamo poi cheJünger «rifiuta in maniera categorica l’aborrita Rassenkunde, nell’accezione ottocentesca volgarmente biologica…». Il che lascia intendere che l’accettasse in altre forme. Dato che, due righe sopra, Benedetti scrive circa «le ambigue formulazioni jüngheriane di natura razzista e antisemita». Insieme ai nostri lettori, vogliamo allora chiederci: ma cosa significa “razzista culturale”? Che parlava tanto per parlare? Che la sua concezione politica era paradossalmente una concezione impolitica e astratta? Che ad esempio l’apartheid che Jünger propose nel settembre 1930 per gli Ebrei – è da notare: proprio nel momento esatto in cui la NSDAP vinse le elezioni e iniziò la scalata al potere – era una battuta “spiritualista”, nulla di serio, che insomma Jünger prendeva in giro i suoi lettori? O sono invece gli esegeti di Jünger a barare? O forse l’uno e gli altri?

Noi sappiamo che un anti-nazismo di Jünger nei fatti non ci fu mai, né prima né dopo il ‘33. Questo potrebbe bastare. Ma sappiamo anche che Jünger, quando Hitler era già noto per quello che era e aveva bisogno di appoggio, non glielo negò. Sulla stampa combattentistica degli anni di Weimar difese apertamente le ragioni del Nazionalsocialismo, nel ‘23 inviò a Hitler una copia con dedica del suo libro Nelle tempeste d’acciaio, mise la sua firma sul Völkischer Beobachter, che era diretto da Rosenberg, razzista “spirituale” come lui, e lo stesso Benedetti ricorda che il fallimento del Putsch di Hitler del ‘23 fu per Jünger una grande delusione. Hitler eJünger erano due perfetti “camerati”, due Frontsoldaten in lotta per i medesimi obiettivi. Questi sono i fatti. I dettagli sono poi un argomento per dibattiti, tavole rotonde o eruditi volumi postumi, che non hanno a che fare con la politica attiva.

Gli storici sono tutti concordi nell’affermare che nel ‘23 l’ideologia hitleriana era bella che formata da un pezzo e che non venne più cambiata di una virgola. Noi allora chiediamo: come maiJüngerconsiderava Hitler un capo e un alleato di lotta nel ‘23 e poi invece cominciò a distaccarsene? Aveva bluffato prima o bluffò poi? Oppure il suo spirito aristocratico trovava antiestetiche quelle violenze politiche e quei radicalismi da lui stesso auspicati? Ma non scrisse sulla necessità di essere “brutali”? E non fu favorevole nel ‘28 al terrorismo del Landvolkbewegung, rifiutato invece da Hitler? Si sarebbe dovuto pensare che quello scrittore pangermanista, imperialista, autoritario, antisemita, razzista e bellicista facesse per finta? Ma allora, come giudicare un ideologo dell’avanguardismo nazionale che prima eccita gli animi dei camerati, con i suoi scritti li fanatizza spingendoli al combattimento più freddo e impersonale, poi di fronte ai fatti ritira la mano e si mette a distinguere, a bizantineggiare? Voleva la lotta oppure la letteratura? Scrivere su fogli come il Völkischer Beobachter o lo Standarte non doveva essere uno scherzo… Jünger lo sapeva per certo…o era un ingenuo? Un mite sognatore? Ma non aveva predicato la durezza metallica del “realismo eroico”? Erano soltanto parole al vento?

Ernst Jünger, Nelle tempeste d'acciaioNel libro di Benedetti, in più punti, si rimarca la natura puramente “estetica”, “vaga”, “teorica”, dell’ideologia politica jüngeriana. Quella di Jünger negli anni Venti-Trenta era per la verità un’ideologia tutta politica, e ben sistemata su posizioni di ferma intransigenza: scriveva di politica estremista su giornali politici estremisti. Come si fa a definire “impolitica” l’ideologia di un rappresentante del radicalismo nazionalista come Jünger? Costui fece o non fece parte della Rivoluzione Conservatrice? Per quanto ne sappiamo, il maggiore storico di quel movimento, Armin Mohler, ha per l’appunto scritto a chiare lettere: «Noi designiamo pertanto come Konservative Revolution una specifica corrente del pensiero politico». E un pensiero politico che non sia una commedia si presuppone che sappia che alle parole seguono i fatti.

Ma il mistico Jünger in quel periodo non scriveva romanzi: parlava con enfasi e gran dispendio di aggettivi di grandezza del Reich, di “dominio”, di “volontà di lotta”, di “attacco al mondo borghese”, del «comando che addita il sacrificio…». Nell’ottobre ‘29, sulla rivista di August Winnig Widerstand, scrisse che la NSDAP «attualmente rappresenta l’arma più forte e temibile della volontà nazionale…al nazionalsocialismo auguriamo di cuore la vittoria…». Ancora nel maggio ‘33, sulla rivista razzista di Amburgo Deutsches Volkstum esaltò «il nuovo ordine», «la riforma autoritaria dello Stato» e la politica pianificata del governo nazista, che doveva essere «superiore all’iniziativa individuale o anche sociale»…insomma non un rigo che fosse meno che allineato. Quando nella cerimonia di Potsdam del 21 marzo ‘33, alla presenza di Hindenburg, Hitler mise davanti a tutti – dai nazionalbolscevichi agli Junker prussiani – la realtà della “rivoluzione nazionale”, Jünger avrebbe dovuto pensare, come praticamente l’intero schieramento dei nazionalisti pensò, che quello era il logico risultato della pluridecennale predicazione pangermanista, alla quale lui stesso per primo aveva partecipato senza risparmio.

Alle gleichen Dinge

Dalle prediche di Meinster Eckhart.

Tutte le cose simili si amano reciprocamente e si uniscono l'una con l'altra, e tutte le cose dissimiii si fuggono e si odiano reciprocamente. Un maestro dice che niente è così dissimile come il cielo e la terra. La terra si è accorta nella sua natura di essere lontana e dissimile dal cielo, e perciò è fuggita lontana dal cielo fino al luogo più basso, ed è immobile, per non avvicinarsi al cielo. Il cielo ha constatato nella sua natura che la terra lo ha fuggito ed ha preso il posto più basso. Perciò esso si effonde completamente nella terra in modo fecondo, ed i maestri credono che l'ampio e vasto cielo non tenga per sé neppure lo spazio di una punta di spillo, ma che invece si generi completamente nella terra, in modo fecondo. Perciò la terra si chiama la creatura più fertile tra tutte le cose temporali. Altrettanto dico io dell'uomo che si è annientato in se stesso, in Dio e in tutte le creature: quest'uomo ha preso il posto più basso, ed in tale uomo Dio deve effondersi completamente, altrimenti non è Dio. Lo dico nell'eterna e sempre perdurante verità: Dio deve effondersi completamente, in ogni uomo che sia distaccato da se stesso fino in fondo, secondo tutto il suo potere, in modo tale da non mantenere niente per sé, né nella sua vita, né nel suo essere, né nella sua natura, e neppure nella sua piena divinità: tutto questo Dio deve effonderlo in modo fecondo nell'uomo che si è abbandonato a Dio e che ha preso il posto più basso.
Mentre venivo qui oggi, meditavo sul modo di predicare a voi per poter essere compreso, e mi è venuto in mente un paragone. Se lo capite bene, comprenderete il senso proprio ed il fondamento del mio modo di vedere, sul quale ho sempre predicato. Il paragone aveva a che fare col mio occhio e col legno: se il mio occhio è aperto, è un occhio; se è chiuso, è lo stesso occhio. Reciprocamente niente si aggiunge o si toglie al legno nell'essere visto. Ma ora comprendetemi bene! Se accade che il mio occhio, uno e semplice in se stesso, sia aperto e rivolto con lo sguardo al legno, ciascuna delle due cose rimane quella che è, e tuttavia, nel compimento della visione, divengono a tal punto una cosa sola, che si può dire con verità occhio-legno, e il legno è il mio occhio. Se anche il legno fosse immateriale e puramente spirituale come la visione del mio occhio, si potrebbe dire effettivamente che, nel compimento della mia visione, il legno e il mio occhio si trovino in un solo essere. Se questo accade nelle cose corporali, quanto più deve valere per quelle spirituali!
Dovete sapere che il mio occhio ha maggiore comunanza con l'occhio di una pecora che è di là dal mare e che non ho mai visto, di quanta ne abbia con le mie orecchie, con le quali tuttavia sta in comunità di essere. Questo deriva dal fatto che l'occhio della pecora esercita la stessa attività del mio, e perciò attribuisco loro una maggiore comunanza nell'operare di quanta ne abbiano i miei occhi ed orecchi, dal momento che questi sono distinti nella loro operazione.
Ho parlato a volte di una luce che è nell'anima, increata e increabile. Ho cura di toccare sempre nelle mie prediche questa stessa luce. Essa coglie Dio immediatamente, nella sua nudità, senza niente che lo ricopra, come egli è in se stesso, e questo è il coglierlo nel compimento della generazione. Perciò posso dire in verità che questa luce ha più unità con Dio di quanta ne abbia con le potenze dell'anima, con le quali peraltro sta in unità di essere. Dovete infatti sapere che questa luce nell'essere della mia anima non è più nobile della più bassa o più rozza potenza, come l'udito o la vista, o altra potenza concernente la fame e la sete, il freddo ed il caldo; e questo è fondato sul fatto che l'essere è unitario. In quanto si prendano le potenze dell'anima nell'essere, esse sono tutt'uno ed ugualmente nobili; ma se si prendono nel loro operare, allora una è molto più nobile ed alta delle altre.
Perciò io dico: se l'uomo si distoglie da se stesso e da tutte le cose create - tanto tu fai questo, tanto sei unito e felice nella scintilla dell'anima, che non tocca mai né il tempo né lo spazio. Questa scintilla rifiuta tutte le creature, e non vuole altro che Dio nella sua nudità, come è in se stesso. Non le bastano né il Padre né il Figlio né lo Spirito santo, e neppure le tre Persone insieme, in quanto ciascuna permane nella sua particolarità. Io dico in verità che a questa luce non basta neppure l'unicità del fecondo seno della natura divina. Voglio dire ancora qualcosa di più, che suonerà ancor più stupefacente: dico nella eterna e sempre permanente verità che a questa luce non basta l'essere divino unico, impassibile, che non dà né riceve: essa vuole sapere da dove questo essere provenga; essa vuole penetrare nel semplice fondo, nel silenzioso deserto, dove mai ha gettato uno sguardo la distinzione, né Padre né Figlio né Spirito santo. Nella interiorità più profonda, dove nessuno è in patria, là trova soddisfazione questa luce, e là essa è in una interiorità più profonda di quanto sia presso se stessa. Infatti questo fondo è un semplice silenzio, immobile in se stesso; da questa immobilità vengono mosse tutte le cose e vengono accolte tutte quelle vite che vivono intellettualmente in se stesse.
Che Dio ci aiuti a vivere in questo modo secondo intelletto. Amen.